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Notte illune

Pensate ad una notte illune, nel senso letterale del termine, cioè una notte senza Luna, una notte nera con soltanto, lontanissime, le miriadi di stelle, al massimo la strisciata della Via Lattea.
Insomma, come le notti di Luna Nuova con quel senso di buio e di vuoto sulle nostre teste. Certo. Ma immaginate che sia sempre così: il cielo di un pianeta privo di un grande satellite luminoso di luce riflessa come il nostro che sorge e tramonta, in forme diverse, scompare e poi ricompare, ma che illumina la notte e che sta lì, in alto, relativamente vicino, che attira dall’alba dei tempi la nostra attenzione. Ci sono pianeti con vari piccoli satelliti, ma lontani, non significativi. La Terra ha il suo, grande un terzo di essa, che l’accompagna da sempre e che ha significato moltissime cose, ispirando filosofi, poeti, romanzieri, scienziati, sognatori…
Che fai tu Luna in ciel, dimmi che fai, silenziosa Luna?
Sì. Che fa?
Diciamo che ha fatto ininterrottamente da segnavia, come fosse indirettamente il simbolo di una meta da raggiungere: prima con la fantasia, poi nella realtà. Sembra che stia lì apposta con questo scopo. Se non ci fosse stata la Luna non sarebbe nata l’astronautica e il desiderio di raggiungerla. Ad esempio.
Un cielo illune non avrebbe spinto nessuno a pensare a dei marchingegni che potessero volare al di là dell’atmosfera. E per andare dove, nel vuoto cosmico? Pensare di raggiungere quei puntolini luminosi distanti anni-luce? Ma va là! A cosa sarebbe mai servito… Sarebbe nata l’aeronautica per raggiungere più rapidamente i vari punti del globo, ma l’astronautica per raggiungere astri e pianeti del Sistema Solare, alquanto improbabile, saremmo rimasti bipedi terricoli. E’ stata la Luna, vicina meno di quattrocentomila chilometri a spingerci a farlo. Certo anche la “guerra fredda”, ma è stata una questione occasionale…
La spinta parte dalle origini: dalla mitologia, con Selene e Diana; con le opere di Luciano di Samosata; con De facie in orbe lunae di Plutarco; con Ariosto che manda Astolfo in groppa all’ippogrifo a cercare il senno di Orlando appunto sulla Luna; con Leopardi e il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia… sino a Marinetti che se la prendeva con il chiaro di Luna!
Se non avessimo avuto quel grande disco giallo sospeso sulle nostre teste, tutto questo non sarebbe mai esistito. Non dico i sospiri degli innamorati, ma nemmeno Cape Canaveral.
Una notte perennemente buia e oscura ci avrebbe non solo impedito diventare romantici, ma neanche spinti a immaginare come raggiungere l’astro della notte: con le boccette colme di rugiada di Cyrano, con la nave aerea di padre Lama sostenuta da globi pieni di “vuoto”, con la lettiga trainata da oche selvatiche del vescovo Godwn, con il pallone di un certo Hans Pfall, con il proiettile del Gun Clib, con la sfera antigravità del professor Cavor, e alla fine con il Saturn, l’Apollo e il LEM di quel nazista di von Braun, certo spinto dalla “corsa allo spazio” iniziata dai russi nel settembre 1957, ma conclusa dagli americani dodici anni dopo con Armstrong. Ma dietro a loro, a parte la contingenza storica e militare, c’era tutto il resto.
Un mondo con notti senza un lume, grande e giallo appeso su in cielo, ci avrebbe lasciati appiedati a covare sul nostro piccolo atomo di male.
Non è stato così. Non è andata così, e oggi ricordiamo la prima discesa dell’uomo sul nostro satellite. Anche se poi la mitica “corsa allo spazio” che fece sognare noi ragazzi degli anni Quaranta e Cinquanta, alla fin fine, si è conclusa lì. Come se la Luna fosse solo il traguardo ultimo e non la prima tappa di qualcosa d’altro e più grandioso. Ma non cerano più i soldi e le tecnologie erano esauste e poi si era vinta la “guerra fredda”, cosa fondamentale. Il famoso “piccolo passo”, si deve avere il coraggio di dire, è rimasto tale…

Gianfranco de Turris

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