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5 ragioni per amare… tutto quello che è campato in aria

Originarimente, questo pezzo avrebbe dovuto intitolarsi “Cinque buone ragioni per amare tutto ciò che è sospeso in aria e non controllabile”, una citazione da Robert Walser che non so se citasse a sua volta qualcuno. Poi ho pensato che la figata – pardon, la citazione – potesse andare nel testo, ammettendo che non è farina del mio sacco. Nel titolo avrei semplificato, perché quando si scrive bisogna sforzarsi di essere efficaci e niente è meglio di una frase fatta. In ogni caso, è vero: per quanto all’apparenza posato io amo le cose astruse e i castelli fra le nuvole. Apprensivo e in certi casi fifone, adoro l’improbabile e i fenomeni incontrollabili, purché goduti da spettatore (per questo sono finito nella fantascienza).

La ragione principe è che l’improbabile fa sentire meglio: sta in alto, dove è ventilato, libero da zavorra terrena. Le responsabilità sulla luna pesano circa un sesto, e nel 1969 mi sentii defraudato per non essere stato scelto a far parte dell’equipaggio di Apollo XI. Mi consolavo pensando che un anno prima, nel ’68, ci ero arrivato per via artistica, assistendo alla prima di 2001:odissea nello spazio; fatto abbastanza notevole, mentre io me ne stavo al chiuso del teatro Augusteo, tre uomini giravano (dentro l’Apollo 8) intorno al nostro satellite, come a benedire il mio viaggio inaugurale. Volare è bello: quando presi un aereo per la prima volta, nel 1979, la vista della terra che si allontanava dietro di me fu un bonus per l’egomaniaco, la parte di noi stessi che ci vorrebbe far schiacciare il mondo come un verme e che di solito teniamo sotto chiave. Il pensiero che con l’aiuto di quattro reattori avevo vinto la forza di gravità, mi fece sentire un angelo. O forse un marziano.

La seconda ragione è che nell’aria ci si campa, proprio come fa pensare il detto. Qualcuno obbietterà che lassù bisogna essere campati artificialmente, ma qu’à cela ne tienne. Abbiamo i mezzi per pompare ossigeno nei nostri abitacoli e un domani li avremo per immetterlo direttamente nel sangue e nei polmoni, forse con le nanomacchine. Campare in aria o accamparsi, fingere i nostri piuoli nell’etere potrà sembrare un fatto rischioso, un fondamento tutt’altro che solido. Ma è appena il caso di ricordare che ciò che è sospeso è semplicemente capovolto, confitto in una materia che rappresenta l’estensione di quella edificabile, anche se molto meno grossolana. È il cielo, dal latino coelum (gr. κοῖ λος), la volta ma anche la cesura che ci sovrasta. Cesura deriva da un altro verbo antico, caedo ossia tagliare: cielo e spazio furono divisi in quadranti e poderi fin dalle origini, per scopi molto pratici.

La terza ragione di questo panegirico è che si tratta d’una necessità. La vita negli strati bassi dell’atmosfera ha molti limiti. È vero che ha anche qualche piacerino, ma una volta che hai collezionato tutto “Nembo Kid” e avute tutte le donne che ti spettano in sorte – non moltissime, non una di più – cosa resta? La punta del naso: ebbene, c’è chi si accontenta di temperare la punta del naso. Noi abbiamo altro da fare.

Quarto e non ultimo motivo, castellando in aria si può rimediare un lavoro per l’avvenire. Ad esempio, si può imparare a curare una rivista di fantascienza o una collana di e-book sullo stesso tema. Chiusi nella postazione ventiquattr’ore al giorno, senza netta distinzione fra albe e tramonti, manipolando soltanto un tastierino, si può ammannire alle giovani generazioni il pan di stelle di cui hanno bisogno. Se si è dotati di spirito critico, si potranno postare commentari sui “film de romanos” e di sf, Totò e i musicarelli, l’intero corpus del western e pubblicazioni semiclandestine come I romanzi del cosmo, Urania e lo S.F.B.C. Per non dimenticare i fumetti cavernicoli di B.C…

Quinta ragione ed epilogo: amare le celesti praterie è sicuro, anonimo e alla portata di tutti. Non bisogna pensare che il privilegio appartenga soltanto al circolo cultori della science fiction (CCSF), perché molti dei più illustri campatori della storia, dei più ammirevoli seminatori nel vento non hanno mai aperto un libro. Guai! Essi sono stati e sono, all’apparenza, normalissimi cittadini con il colletto inamidato, il pince-nez e le mezzemaniche per non macchiare la giacca d’inchiostro. Le loro esistenze sono prosaiche, addirittura noiose e certo molto terra-terra, finché non viene il momento di spalancare la porta della stanza con il trenino. Ben lo sapeva Simenon, che ne ha parlato a iosa. Vivere una vita campestre, pardon aerestre, non implica stravaganze: è preferibile confondersi nel grigio e anzi nel gregge, per ricavare la propria dignità e libertà dalla suprema insouciance. Vi sentite già più leggeri? Su, su, staccatevi dal suolo, salite come un filo di fumo, una spirale di nebbia o un razzo del capodanno cinese. Se non vi fidate delle vostre ali d’Icaro, le brucerete al sole; se imparerete che l’antigravitazione non è per tutti, ma per voi funziona, continuerete a filare incogniti nel mondo dell’arte di vivere, sopra i meschini calcoli della borghesia e delle multinazionali.

Giuseppe Lippi

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